La questione affrontata da José Jiménez in Critica del mondo immagine è cruciale, riguardando i principi del nostro ambiente di vita, gli effetti che ne derivano e le possibili alternative. Certo, come suggerisce il titolo, la trattazione è incentrata sulle immagini (la loro qualità, il loro uso, le loro funzioni ecc.), ma in considerazione dell’importanza che esse hanno nella società – fatto di cui ognuno fa esperienza nell’ordinario, e che l’autore si occupa comunque di ben delineare -, si comprende come l’argomento sia tanto ampio da diventare assoluto. Per questo il libro rientra nella filosofia più che nell’estetica.
L’assunto fondamentale dell’analisi è che la realtà si dia e venga conosciuta attraverso la visibilità e le rappresentazioni, ovvero che la nostra esperienza del mondo, da tempo, avvenga di fatto come esperienza delle immagini. Varrebbe per ogni manifestazione sociale e culturale, non solo per quelle che hanno un rapporto diretto con l’iconico, ma anche per quanto riferiremmo ad altro, si tratti della politica, dell’economia o della tecnologia. Ciò apre a dei problemi rilevanti, che, in accordo alle posizioni dell’autore, potremmo sintetizzare così: la presenza pervasiva delle immagini è ripetitiva, ipnotica, alienante e proprio per via dei suoi eccessi, che siano determinati o meno, gli eventuali obiettivi di dominio che la informano diventano imperscrutabili; le immagini uniformano la visione del mondo e quindi anche i nostri comportamenti; noi siamo abituati a guardare il mondo immagine di continuo, perché è appunto il nostro mondo, inseguendo la velocità delle sue manifestazioni, ma in certo modo abbiamo disimparato a vedere, cioè a unire allo sguardo il pensiero critico. Ne consegue una domanda fondamentale. Come è possibile avere immagini alternative in tale universale omogeneità, e che cosa è richiesto a loro e alla nostra attenzione per procedere in controtendenza? Le immagini alternative a cui si fa riferimento sono quelle artistiche, ma come si accennava prima, l’interrogativo è enorme, perché da ultimo è in gioco la nostra libertà.
La riflessione di Jiménez si sviluppa tra due punti. Nietzsche e la genealogia come metodo d’indagine, e l’esortazione di Kant al sapere aude (osa sapere). L’autore traccia un excursus da quello che viene usualmente individuato come avvio della modernità, nella seconda parte dell’Ottocento, e, passando dalla rivoluzione delle avanguardie storiche all’inizio del Novecento, si inoltra nei decenni fino al presente. Sempre con l’avvertimento che le parole usate per le periodizzazioni sono davvero complicate e rischiose; la definizione di modernità si presta a varie interpretazioni, per Jiménez si tratta di un processo ancora non superato, che stiamo vivendo – dato che i suoi caratteri distintivi, la centralità della tecnica e l’estetizzazione diffusa, sono gli stessi che connotano il tempo contemporaneo. Per motivi di sintesi qui si devono escludere molti passaggi, ma almeno uno è essenziale riportarlo. La promessa delle avanguardie storiche di avvicinare l’arte e la vita sino alla loro identità, per varie ragioni fu avverata solo in minima parte, questo è noto. Ciò non significa che il fine non sia stato in effetti conseguito, semmai che l’arte non l’ha raggiunto. Secondo l’autore sono stati in seguito il design, la pubblicità e i mezzi di comunicazione di massa a riuscire. Il dominio corrente delle immagini è stato costituito tramite lo sviluppo di questi tre ambiti, in accordo alla scoperta prima, e alla consapevolezza poi, che la società capitalista trova il suo veicolo più efficace nel consumo iconico. Noi consumiamo tutto a partire dalle immagini, dopo arriviamo alle cose. Le arti sono diventate parte di tale continuum globale. In apparenza è un cul-de-sac, se la diversità potenziale è ormai parte integrata nel sistema egemone.
Qui viene la proposta specifica di Jiménez. Essere parte di un sistema costrittivo non comporta l’inanità, ma accresce la necessità di un cambiamento. Se le immagini artistiche non si distinguono da quelle mediatiche secondo il modo di realizzazione, poiché i mezzi a cui si ricorre sono i medesimi, a segnare una differenza dev’essere altro. È l’intenzionalità, che l’autore chiama anche télos (potremmo dire, lo scopo). La svolta segnata da Duchamp e dai readymade rimane attuale: l’artista elesse l’oggetto già in tutto compiuto, mettendo da parte l’esecuzione materiale e dando valore primario alla scelta e alla decontestualizzazione. Così oggi, le immagini artistiche non vengono distinte dal come sono state create, ma dalla scelta di svincolarle dagli scopi usuali – qui è importante specificare che ciò non significa limitarsi a scegliere quanto già è stato fatto e rinunciare a realizzare (una pittura, una scultura, un’installazione e così via), è piuttosto il tentativo di sottrarre le opere al mero consumo. Il corrispettivo del discorso è che le immagini artistiche non hanno alcuna finalità pragmatica, ne hanno una di valore eccezionale, che è quella di contribuire alla vera conoscenza. L’arte, come la filosofia, mettendo in questione le apparenze, permette di coltivare il senso critico, di dare modi alla creatività, di esercitare la libertà. Sapere aude, osa sapere, abbi il coraggio di farlo, diventa: differenzia l’immagine. Vale sia per gli artisti sia per chi fa esperienza delle opere. È necessario in entrambi i casi introdurre una distanza rispetto al continuum globale dell’immagine, sostituendo al tempo quantitativo, segnato dall’immediatezza, quello qualitativo, che è un tempo disteso, opportuno, intenso. “L’opera d’arte possiede, nel nostro tempo, il carattere principale di una rottura, di una differenziazione nell’indistinta catena di segni che costituisce l’universo culturale delle società di massa. Di fronte alla globalizzazione comunicativa, l’arte isola, taglia, ferma, rallenta, accelera, inverte e sovverte. In breve: differenzia l’immagine, stabilendo così un modello di autonomia di sensi che le permette di continuare ad essere poiesis, produzione di conoscenza e di piacere, messa in opera della verità e dell’emozione attraverso la sintesi del sensibile e del concetto.”
Il libro di Jiménez, sviluppo più recente di un’ampia riflessione condotta negli anni, ha un doppio merito. Offre una lettura articolata e chiara dei processi, delle idee e delle scelte che hanno portato alla conformazione attuale del nostro ambiente di vita, e perciò risulta molto utile sia come sintesi per chi abbia già delle conoscenze specifiche sull’argomento, sia come visione d’insieme per chi invece approcci tale studio per la prima volta. Certamente c’è un grado di soggettività nella scelta dei riferimenti inerenti ai secoli e nella loro interpretazione; ogni autore, delineando un percorso così vasto, lo farebbe in modo almeno in parte diverso. Ciò non toglie che vi siano dei punti fermi e del tutto condivisibili, e che la definizione del mondo immagine sia solida e promettente. Se la strada per arrivare a individuare il problema è variabile, l’individuazione del problema è centrata. Inoltre, l’autore avanza una proposta diretta e concreta, fatto non così usuale per un libro di filosofia. L’incoraggiamento a differenziare l’immagine (e prendersi il tempo adeguato), che vale come riferimento per gli artisti e quindi per noi nell’esperienza delle opere d’arte, è un’intuizione forte, che contribuisce alla profonda riflessione, necessaria a ripensare il ruolo dell’arte nella società contemporanea. Un problema, quest’ultimo, che da tempo è diventato urgente, anche se difficilmente viene percepito come tale, in specie fuori dal suo ambito di appartenenza. In realtà – e qui mi permetto di avvicinare le posizioni dell’autore – tracciare e dichiarare con decisione la rilevanza dell’arte nel presente, significa contribuire fattivamente al miglioramento della vita e all’accrescimento delle libertà, e non in una prospettiva remota o utopica, ma quotidiana.
José Jiménez
Critica del mondo immagine
Edizione italiana e traduzione a cura di Alessandra Scappini, prefazione di Bruno Corà
Aesthetica Edizioni, 2025
pp. 184, €19
In copertina: fotografia scattata all’esterno della Royal Bank Branch, Notre Dame Street, Montreal, Canada nel 1911 © Musée McCord Stewart Museum, Montréal, Canada