Zoya Shokoohi | Daniela Spaletra – Dimora – Fourteen Artellaro

Zoya Shokoohi | Daniela Spaletra
24 giugno / 14 luglio
Fourteen Artellaro
Piazza Figoli 14, Tellaro di Lerici SP

testo critico di Matteo Innocenti

Rassegna DEBACLE
a cura di Gino D’Ugo

L’etimologia delle parole spesso serve a comprenderne i significati originari, e conseguentemente anche gli usi correnti. “Simbolo” viene dal greco antico ed è traducibile come “mettere insieme”, con il termine si intendeva in effetti una pratica di separazione e unione: la rottura di un oggetto, spesso una tavoletta di terracotta, e la divisione delle sue metà tra due parti connesse da un certo legame individuale, familiare o sociale; la corrispondenza perfetta tra i frammenti avrebbe permesso in ogni tempo il riconoscimento e la prova del legame stesso. Ecco, il processo per cui un semplice coccio può contare più del suo mero stato materiale è la radice del simbolo: un segno che affida ad alcune cose, naturali o artificiali, un senso più ampio e profondo rispetto a quanto esse hanno normalmente.
I fiori, e in modo particolare i fiori rossi, continuano a essere rilevanti pressoché in ogni cultura. Si tratta di uno di quei macro fenomeni che necessiterebbero di studi approfonditi e specifici (e forse ci sono); qui possiamo soltanto indicare alcune ragioni di base. Il rosso è il colore del sangue, dunque il sangue che lega – sia un rapporto di amore, di parentela, o in modo figurato la condivisione di una credenza o di un insieme di ideali tali da regolare dei comportamenti essenziali – ma anche il sangue della ferita e del sacrificio, e allora il riferimento va a situazioni di scontro civile o politico e di guerra. L’accezione dipende anche dalla tipologia del fiore: il papavero cresce spontaneo in ogni tipo di terreno dunque è resistente, il garofano sboccia e rinasce anche in autunno inoltrato, la forma aperta della gerbera evoca la vittoria.
Il progetto in comune tra Daniela Spaletra e Zoya Shokoohi aderisce, già dalla sua genesi, ai caratteri di relazione e incontro che sono propri della questione simbolica. Entrambe hanno fatto ricorso ai fiori rossi in una propria opera precedente, ma in riferimento, com’è naturale, a periodi storici e aree geografiche molto diverse. Daniela con In Pectore, nel 2021, si è confrontata, a distanza di un secolo, con un evento drammatico, per stimolare una riflessione sul dolore e sul senso di impotenza delle vittime di sopraffazione; si tratta di un episodio di violenza estrema, purtroppo tra molti altri commessi dalle squadre fasciste: nel 1921, a Carrara, la giovane Claretta Lazzeri camminava indossando sul petto un fiore rosso, probabilmente senz’altro motivo se non quello della sua bellezza, ma il gesto venne considerato provocatorio da un gruppo di fascisti che assalirono la ragazza e poi ne uccisero, mentre cercavano
di difenderla, il fratello e la madre. Dopo una ricerca storica durata anni, l’artista ha realizzato un’installazione site-specific per la Chiesa della Madonna delle Lacrime, nella stessa città: tanti fiori di garza rossa nel porticato, e all’interno il video di un impianto processuale, svolto in un’aula di tribunale senza reale dibattimento ma comunque efficace per consegnare, almeno metaforicamente, il tremendo accadimento nelle mani della giustizia. Zoya con Aizarcomed – Democrazia, del 2023, a 16 Civico a Pescara, ha avviato un processo collettivo per realizzare dei fiori rossi, tanti, quanti più possibile, così da sopravanzare il numero degli omicidi commessi in Iran, dal governo, ai danni di cittadini considerati “colpevoli” di aver manifestato un qualsiasi dissenso politico. Ne sono conseguiti una serie di tutorial video, e la formazione di un gruppo di lavoro per progettare e costruire in modo effettivo una scuola
nella regione, particolarmente povera, del Belucistan: dove si insegnerà, appunto, anche a “fare” i fiori rossi.
Da una parte una memoria irrisolta che risale al ventennio fascita, dall’altra il presente terribile del popolo iraniano e la sua lotta per il riconoscimento di molti diritti umani fondamentali. A partire da questi due punti sono avvenuti l’incontro e la condivisione, per arrivare all’installazione pensata specificamente per lo spazio espositivo: fiori rossi di garza a terra e sospesa una scritta a lettere rosse su stoffa bianca: “e se i fiori rossi sentissero freddo?” Una frase poetica che suona al contempo lieve e densa, e che rimanda, tra le altre, a una considerazione importante seppur spesso negletta. Perché noi tendiamo a usare i simboli senza tener conto della fragilità che sta a esatto corrispettivo della loro potenza. Prendiamo proprio il caso dei fiori. Sul ricorso che se ne fa, deve influire la coscienza, più o meno emersa, del rapporto tra l’avvenenza e la caducità: il fatto che la loro bellezza risulta persino esaltata dalla breve vita.
E per estensione: come esseri umani conosciamo l’estrema difficoltà del proteggere e conservare ciò che di più alto crea ed esprime la nostra specie; un fiore ha bisogno di cura costante, come ne ha bisogno un’idea di libertà, di solidarietà, di coesione. Avere presente che l’elemento simbolico, anche al massimo della sua forza, resta delicato – chiedersi dunque se un fiore abbia sofferto per gli usi propri e impropri di cui è stato soggetto, negli infiniti corsi e contrasti che compongono la nostra storia – ci porta verso la responsabilità del pensiero e delle azioni.
Non è certo l’unica interpretazione per Dimora: relazionando la dimensione affermativa e interrogativa, alcuni elementi formali che possono rimandare sia a modalità consolidate di riflessione metalinguistica – si pensi all’importanza delle parole dal periodo dell’arte concettuale in poi – ma anche a espressioni di carattere più immediato e sociale, ad esempio gli striscioni usati nelle manifestazioni pubbliche, l’opera, echeggiando l’accoglienza e la protezione a cui il titolo rimanda, si apre a uno spettro davvero ampio di valutazioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *