Mind the Map – Not a Museum

Mostra collettiva degli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, a cura di Robert Pettena, Stefano Giuri e Gabriele Tosi

Dal 23 giugno al 24 giugno 2022
Manifattura Tabacchi, Firenze

Mind the Map, la collettiva degli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Firenze nata al termine del Workshop curato da Robert Pettena è la restituzione di un esercizio sull’osservazione.
Nel corso del laboratorio gli studenti hanno esplorato gli spazi e i contesti di una Firenze inedita, percorrendo itinerari estranei alle mappe turistiche e talvolta degli stessi cittadini. Le architetture brutaliste di Sorgane, l’area abbracciata dai fiumi Mugnone e Arno, il complesso industriale di Manifattura Tabacchi, lo storico Parco delle Cascine. Camminare senza apparente meta e approcciarsi allo spazio come un dubbio, mentre lo sguardo si libera dai cavilli culturali e sociali, dalle (in)evitabili abitudini, dalle aspettative comuni. Le fotografie, i video e le performance in mostra intercettano le contraddizioni delle architetture e dei paesaggi naturali, rovesciano la logica di cui sono traccia e sentore, eterotopie rispetto alla città presente. 


Mind The Map contribuisce così alla creazione di una mappatura narrativa di luoghi e di persone, riscrive la storia degli spazi per come li conosciamo, e proprio attraverso il passaggio della documentazione ne traccia il valore di memoria culturale. 

Il progetto è stato possibile grazie al sostegno dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, e alla collaborazione di NAM – Not A Museum e Toast Project Space.

In mostra, le opere di: Li Ao, Zheng Bing, Giovanni Bonechi, Xue Chen, Benedetta Chiari, Diletta De Vitis, Duccio Franceschi, Sadra Ghahari, Martina C. Greco, Ren Hongjing, Shihua Luo, Jasmine Morandini, Marianna Nieddu, Fudi Ouyang, Alessio Pergolesi, Elisa Pietracito, Daniel Prenleloup, Xue Rui, Elisa Scarnicchia, Yilin Shao, Lu Shiyin, Liu Shuchen, Baopu Tong, Xiaozhou Ye, Wengzheng Zang, Xinviwen Zhao, Yunving Zhu, Yurong Nie, Xu Jiachen, Jiaqi Xu.

Con testi di Marcella Anglani, Matteo Innocenti, Caterina Taurelli Salimbeni, Stefano Taccone, Gabriele Tosi.

Link NAM


Di sguardi e contesti
Matteo Innocenti

In un pomeriggio primaverile di pioggia, datato 14 aprile 1921 – dunque oltre un secolo fa -, un gruppo nutrito di artisti e letterati sotto il nome di Dadaisti (ma si sarebbero diversamente definiti Surrealisti di lì a poco), si ritrovarono per un’escursione a Parigi, dopo aver distribuito nei giorni precedenti un volantino di partecipazione, così titolato Excursions et Visites Dada, in cui si poteva leggere: «I dadaisti, di passaggio a Parigi, volendo rimediare all’incompetenza delle guide e dei ciceroni sospetti, hanno deciso d’intraprendere una serie di visite in dei luoghi prescelti, in particolare quelli che non hanno nessuna ragione di esistere. È a torto che si insiste sul pittoresco, sull’interesse storico, e sul valore sentimentale. La partita non è persa, ma bisogna agire in fretta». La camminata prese avvio da una delle chiese più antiche della città – ma allora poco conosciuta e frequentata – Saint-Julien-le-Pauvre, in pieno Quartiere latino, non lontano da uno dei monumenti francesi più iconici, la cattedrale di Notre-Dame; l’evento proseguì attraverso tappe scelte da personalità quali André Breton, Tristan Tzara, Louis Aragon, Paul Éluard. Per quanto riguarda l’effettiva partecipazione vi sono due tesi discordanti, quella di Hans Richter, secondo cui non prese parte nessuno oltre gli organizzatori e dunque si trattò di un fallimento completo, e quella di Breton che invece riportò un numero oltre le cento persone. Aldilà del dato numerico è più importante rilevare come l’iniziativa si ponesse in controtendenza rispetto ai modi comuni di osservazione dei luoghi e che, nel fare ciò, si collocasse, seppur in modo emblematico, all’interno di un percorso più ampio. Guardando oggi in prospettiva storica potremmo citare come precedente rilevante l’intuizione di Charles Baudelaire sul nuovo rapporto tra l’individuo e la città metropolitana moderna: il flâneur è colui che vaga tra le vie guardandosi intorno – senza un scopo, potremmo dire in atteggiamento ozioso, o comunque non regolato da obiettivi specifici – facendo della passeggiata il fine stesso del proprio movimento. Andando avanti nel tempo, sono note, anche a livello teorico, la deriva e la psicogeografia situazioniste: «Una o più persone che si lasciano andare alla deriva rinunciano, per una durata di tempo più o meno lunga, alle ragioni di spostarsi e di agire che sono loro generalmente abituali, concernenti le relazioni, i lavori e gli svaghi che sono loro propri, per lasciarsi andare alle sollecitazioni del terreno e degli incontri che vi corrispondono. La parte di aleatorietà è qui meno determinante di quanto si creda: dal punto di vista della deriva, esiste un rilievo psicogeografico delle città, con delle correnti costanti, dei punti fissi e dei vortici che rendono molto disagevoli l’accesso o la fuoriuscita da certe zone.»1 Anche la performance art, dal suo emergere e svilupparsi, al termine degli anni Sessanta dello scorso secolo, ha declinato in modo intenso e variabile tale indagine; solo a titolo di esempio si pensi alle Body Configurations (1972-76) di Valie Export, serie di scatti fotografici come confronto critico tra il corpo femminile e la conformazione architettonica di Vienna – intesa quale espressione di un linguaggio patriarcale e oppressivo; Following Piece (1969) di Vito Acconci, inseguimento casuale di un passante nelle strade di New York, che cortocircuita la relazione tra spazio pubblico e privato, tra condivisione e intimità.
L’Italia non manca di casi notevoli, sia nel rapporto con la natura che con i contesti sociali: dall’escursione solitaria di Gianni Anselmo testimoniata dallo scatto fotografico La mia ombra verso l’infinito dalla cima dello Stromboli durante l’alba del 16 agosto 1965, alle Alpi Marittime (1967-1968) di Giuseppe Penone, interventi tramite cui l’artista si poneva in rapporto osmotico con i boschi intorno a Garessio, suo paese natale; per la dimensione urbana valgano le esperienze di Riccardo Dalisi al Rione Traiano a Napoli (1971-1974) e l’ampia riflessione, accompagnata da eventi collettivi quali Volterra ’73, di Enrico Crispolti.
Questo excursus, seppur ampiamente selettivo, suggerisce come da molto tempo sia presente, nell’ambito (o sarebbe meglio dire, negli ambiti) dell’arte, una riflessione sui luoghi e i contesti, foriera di visioni alternative degli stessi. Merita porsi la domanda se tale attitudine abbia resistito, nel periodo recente, al divenire sempre più complesso degli scenari – in considerazione anche dell’avvento e della continua evoluzione degli apparati digitali e virtuali. In che modo gli artisti si stanno confrontando con l’ambiente in cui si trovano a vivere abitualmente2? Sentono la tensione o fascinazione del confronto diretto? Resta ancora centrale una sensibilità dello sguardo, diretta a rilevare e interpretare diversamente ciò che già è favorito (o svantaggiato) da una normatività, spontanea o istituzionale che sia?
Non è certo questo un testo in cui si possa azzardare una risposta, ciò che mi preme marcare è altro. Credo che nel processo di formazione accademica dovrebbe trovare ampio spazio l’esercizio dell’osservazione: porsi in contatto con ciò che ci circonda, senza darlo per scontato, desiderando approfondirlo, tentando di fare emergere un segno conseguente al rapporto tra noi ed esso. Mi pare evidente che ciò, per analogia diretta, sia in relazione a un processo più ampio, che tiene insieme la visione della realtà e il linguaggio artistico. Si tratterebbe, in ultima analisi, di creare le condizioni opportune per lo sviluppo del senso critico nei giovani artisti, durante la fase di apprendimento.
Questo è per me uno degli aspetti preziosi del progetto Mind the Map, poiché esso, prendendo avvio da alcuni contesti territoriali specifici – i quartieri dell’Isolotto e di Sorgane – invitando a re-sperimentarli, induce le studentesse e gli studenti a formarsi una visione al contempo informata e personale.
Che cosa è avvenuto a conclusione di questi mesi di studio ed esperienza trascorsi con il professor Robert Pettena? Apro la cartella drive dei materiali che sono stati mostrati durante le revisioni, per definire le opere in mostra; la varietà rispetto a uno stesso punto di partenza è netta e sorprendente. Chi ha agito per immedesimazione – il corpo che si integra in maniera quasi mimetica con la natura (Diletta De Vitis) -, chi per estraneità – dei bizzarri individui con maschere da coniglio stanno in piedi o accovacciati nel parco (Nie Yurong); alcuni hanno preso a centro focale i sentimenti intimi scaturiti dal rapporto con l’ambiente (Ren Hongjing); in altri casi si è proceduto evocando tramite l’assenza e la memoria (le forme dei ceppi d’albero di Benedetta Chiari), oppure l’ambiente stesso, attraverso alcuni suoi elementi, è divenuto stimolo per sviluppare delle opere di tipo scultoreo o installativo (Yilin Shao); vi è anche la componente performativa, come invito all’azione o azione documentata per immagini (le tute di Duccio Franceschini, il video-starnuto di Elisa Scarnicchia, la diminuzione del frame rate di Zhu Yunying).
L’insieme di questi progetti mostra come ogni contesto – urbano, architettonico, paesaggistico che sia – possa diventare risorsa per nuovi significati: anzi, come sempre sia tale, in modo permanente. Semmai siamo noi, talvolta, a scordarlo.

1Guy Debord, Théorie de la dérive, in Les Lèvres nues, n. 9, novembre 1956

2Questa precisazione è il motivo per cui qui non si dà conto delle residenze d’artista che, come noto, hanno un’estensione limitata nel tempo.


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