L’Accademia dissenziente

Cominciamo dalla mostra La perfezione nella forma, dialogo ideale fra l’arte di Mapplethorpe e quella di Michelangelo. Nella recensione pubblicata da “Exibart”, pur elogiando l’originalità e il rigore scientifico dell’iniziativa, criticavo la mancanza di riferimenti alla produzione omoerotica del fotografo americano. Si è forse trattato di un eccesso di pruderie? Ovvero, può un’istituzione “storica” interagire in modo libero con l’arte contemporanea?
In verità la scelta di non presentare un certo “tipo” di opere ha avuto una doppia motivazione. Facciamo una premessa: la critica, almeno fino a oggi, si è più concentrata sulle caratteristiche umane e sessuali del personaggio che sulle qualità espressive del fotografo. In parte ciò è avvenuto – secondo un’opinione condivisa da chi lo conobbe – perché Mapplethorpe stesso, all’inizio della carriera, volle mettere in rilievo la propria omosessualità. Riteneva che ciò gli sarebbe servito per emergere più velocemente nell’intricata scena newyorchese della fine degli anni ‘60, e in effetti fu così.

Ma…
Ma se l’immagine all’inizio gli giovò, poi divenne nociva; in occasione di ogni mostra, anche quando gli scatti erotici costituivano una componente minima, i critici continuavano a non considerare altro. Sulla base di tali elementi, ci è parsa necessaria un’analisi di Mapplethorpe realizzata con metodologia seria, cioè secondo i principi e i procedimenti tipici della storiografia artistica. Le impostazioni sociologiche e psicologiche possono essere integrative ma non primarie, ecco perché la nostra “esclusione” è stata consapevole: mirata a catalizzare l’attenzione sul rigore geometrico delle composizioni, appunto sulla perfezione della forma.

Franca Falletti

Ok. E il secondo motivo di ‘esclusione’?
Non voglio nascondere niente: io non dirigo un museo privato, in cui si può realizzare quanto si vuole, ma un museo statale. Nel mio ruolo è necessario avere del realismo. Se rischio fino a dieci in una volta sola e dopo non ho altre possibilità, ebbene io mi sono sfogata, però non ho fatto il bene della società e dell’istituzione. Dunque, la cosa migliore è procedere per gradi, soprattutto nel contesto pubblico: qui un errore di valutazione circa il proprio potere può comportarne la perdita totale.

 All’esposizione seguiranno altri eventi? Avverte la necessità di rivitalizzare la Galleria?
Molti aspetti della mia trentennale attività, non soltanto l’apertura all’arte contemporanea che è fattore recente [la prima iniziativa, Forme per il David, è del 2004, N.d.R.], vanno nel senso di un rinnovamento. Da quando sono qui, il museo ha ampliato enormemente i suoi spazi: la collezione del Trecento, le icone, il salone dei gessi, il dipartimento degli strumenti musicali. Ho cercato insomma di evidenziare aspetti culturali aldilà del David; invece una persona diversa, magari con una mentalità manageriale come quella che piace al governo, avrebbe preferito un percorso veloce ed esclusivo su Michelangelo…

Ricorrendo a un’espressione comune: un percorso veloce per fare cassa?
Proprio così. Ma se il fine è quello di tenere vivo il museo, cioè rendere la cultura interessante e al contempo divertente, il teatrino scenografico della politica non serve a niente. Del resto non credo che i giovani siano davvero attirati dalla superficialità, o almeno non posso crederlo: la generazione a cui appartengo amava riflettere, studiare la filosofia, agire di testa propria per non uniformarsi. Pensi che ancora, quando ricevo apprezzamenti per un’iniziativa, mi viene naturale chiedermi dove abbia sbagliato.

La questione è complessa: ristrutturati dal pensiero illuminista per una fruizione democratica della cultura, i musei sono ormai considerati alla stregua di un reliquario. A parte poche eccezioni, lo scenario nazionale è desolante: frotte di cittadini che non s’interessano al proprio patrimonio artistico e turisti che visitano tutto senza coscienza, come rispondendo a un dovere. Da direttrice di un’istituzione così importante lei può fare chiarezza: si tratta di una percezione distorta oppure la dinamica è questa?
La dinamica è proprio questa, e dobbiamo contrastarla. Le ricordo alcune nostre iniziative: un’apertura serale gratuita mirata ai residenti, a breve incontri e conferenze con importanti personaggi del mondo della fotografia, il dipartimento degli strumenti musicali configurato in modo da non prestarsi a invasioni di massa. Mi rendo conto che è poco, ma attraverso una reiterazione testarda negli anni si può arrivare a qualcosa.

Robert Mapplethorpe - La Perfezione nella Forma - veduta della mostra presso la Galleria dell'Accademia, Firenze 2009 - photo Eliseo D'Agostino
Dal tono mi pare di capire che anche per realizzare il “poco” si debbano affrontare grandi difficoltà…
Sì, purtroppo è difficile ottenere qualsiasi cosa, per via dell’avidità e della scarsa considerazione nei confronti dei beni culturali. A me pare che ci sia un fraintendimento assoluto sui valori: un cittadino colto spreca meno e rende più di uno incolto, dunque il livello di istruzione non danneggia, semmai favorisce l’economia nazionale.

 Fraintendimento che certo non risparmia Firenze, divisa com’è tra eccedenze di passato rinascimentale e incapacità di fare innovazione. Quali sono, all’interno di tale sistema, il ruolo e le responsabilità del Polo Museale Fiorentino?
È un discorso ripetuto ma corrispondente al vero: la nostra città sfrutta al massimo il proprio patrimonio e ciò le basta. Una situazione negativa che però ha una sua logica: quando si ha così tanto a portata di mano, rischi e novità non sembrano fattori necessari. Personalmente soffro, tanto nell’appurare il frequente provincialismo delle scelte intellettuali, quanto nel vedere persone capaci doversene andare in luoghi diversi. Vedremo che cosa accadrà con la nuova amministrazione. Allo stato attuale delle cose ritengo che il Polo Museale, insieme a Palazzo Strozzi – sebbene quest’ultimo abbia vissuto varie difficoltà -, costituiscano la fonte primaria della cultura fiorentina.

Robert Mapplethorpe - La Perfezione nella Forma - veduta della mostra presso la Galleria dell'Accademia, Firenze 2009 - photo Eliseo D'AgostinoA proposito di difficoltà: in termini d’investimenti e ritorni, sia culturali che materiali, che rapporto c’è tra musei e mostre temporanee?
Le mostre allestite in Galleria sono interamente coperte dagli introiti, quindi non costano niente. Anzi, a volte le temporanee richiedono lavori di adattamento che poi resteranno nell’allestimento stabile. Il rapporto è conveniente sotto ogni punto di vista.

Proviamo a congetturare sulle ragioni del decadimento museale. Le propongo questa tesi: l’età contemporanea ha segnato un frattura tanto netta da rendere impossibile ogni dialogo con il passato, per cui non si può avere per i secoli trascorsi altro interesse oltre a quello “specialistico”.
Sono del tutto contraria. Consapevoli o meno, attraverso la citazione o la negazione, gli artisti contemporanei rivelano sempre un legame con il passato. È vero che il periodo storico tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento ha segnato un cambiamento evidente – in sostanza il passaggio dalla forma verosimile all’informale – però trasformazioni comparabili erano già avvenute: si pensi alla produzione coeva di Lorenzo Monaco e Masaccio tra il 1420 e il 1425, furono due concezioni dell’arte completamente diverse. Nonostante gli eventi e i cambiamenti la storia mantiene una sua, sottesa, continuità.

E per quanto attiene al pubblico giovane? Consideriamo virtualità e velocità: se un’immagine mediatica di cinque secondi è già un’immagine di consistente durata, non è irreale aspettarsi che le nuove generazioni contemplino per cinque minuti un quadro?
Non conta il tempo. Forse vedranno il quadro per soli cinque secondi e avranno una lettura del tutto diversa dalla mia che sosto per cinquanta minuti; sarà comunque una lettura interessante. Il fatto che i nuovi media abbiano mutato l’artista e il pubblico non comporta necessariamente un disinteresse per il passato. Anzi, dobbiamo ricordarci che l’accrescimento personale avviene sempre grazie alla diversità. Un giovane che guardasse solo ai suoi contemporanei eserciterebbe una forma sterile di narcisismo. A mio parere perciò non è preoccupante la tecnologia in sé, ma i modelli comportamentali di riferimento: la politica del nostro Paese è ormai tesa all’annullamento delle differenze.
È paradossale affermarlo adesso, con Internet che ci permette di vedere sempre più lontano…Non immagini quante volte mi ripeta “meno male che c’è Internet!”. Tanti ragazzi italiani, altrimenti costretti a viaggiare di continuo, grazie alla rete possono ovviare – almeno in parte – al soffocamento dell’intelligenza.

Siamo nel centenario del Futurismo: che cosa scriverebbe oggi Marinetti a proposito dei musei?
Ciò che nel 1913 scrisse Papini: “Siete continuamente occupati in questo ignobile esercizio: levare i quattrini dalle tasche degli stranieri facendo loro vedere i rimasugli dei vostri celebri defunti. Se girate le migliori strade di questa città non vedrete altro che caffè per gli stranieri, uffici per gli stranieri, spedizionieri per gli stranieri. Eppoi da tutte le parti musei e gallerie, gallerie e musei. Tutta la città un giorno o l’altro, si potrà chiuder dentro da un muro e farne un gran museo col biglietto d’ingresso di cento lire”.

Robert Mapplethorpe - La Perfezione nella Forma - veduta della mostra presso la Galleria dell'Accademia, Firenze 2009 - photo Eliseo D'Agostino
Oltre agli impedimenti che rendono difficile ogni gestione, che immagine ha del museo ideale?
Penso a uno strumento in grado di arricchire la società. In linea teorica il processo non è difficile: mostre ben realizzate e ben illustrate – unite a iniziative complementari – al posto dei visitatori “passivi” un pubblico che osserva con calma e soddisfa ogni curiosità. Il museo raggiunge il proprio fine se le persone, al termine del percorso, hanno acquisito nuove nozioni.

Proviamo a convincere i più scettici: quale tipo di emozione appartiene solo e soltanto all’esperienza di una visita museale?
È la sensazione che provi quando il museo è quasi vuoto. In quei momenti, nel silenzio dominante, si può percepire il senso del divino.
Matteo Innocenti
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