Serie #.1 Signori, la mostra è finita

Su Artribune non ci si ferma mai. Inauguriamo allora una nuova rubrica, firmata da Matteo Innocenti, una delle voci più autorevoli del nostro giornale dalla Toscana. Una rubrica aperiodica, per fare il punto sullo stato dell’arte e sulla salute del suo sistema.

Anthony Gormley - Blind Light – Hayward Gallery, Londra 2007
Anthony Gormley – Blind Light – Hayward Gallery, Londra 2007

Dipende dai punti di vista, se considerarla una fortuna o il suo contrario, vivere quelle situazioni limite in cui le modalità acquisite, espressa al massimo grado e poi esaurita la propria potenza, declinando segnano il termine di un periodo. L’aspetto curioso è che la fine, ancora un attimo prima di propagarsi, pur nella sua già presente evidenza, non fa rumore: perciò i più possono fingere di non avvedersene, sperando che l’artificio della propria cecità serva, se non a eludere, almeno a rimandare il cambiamento in atto. Il motivo di tanta diffidenza? La coscienza che ogni trasformazione, quando avviene in maniera naturale, secondo una successione di eventi non subordinata a un controllo specifico, afferma un carattere sovversivo e sconcertante.
Ecco, nella catatonia generale accade che la mostra d’arte come la conosciamo e pratichiamo da molto, esaurito il proprio senso d’essere, si destini all’estinzione. A tale idea non si arriva per vezzo fatalista, ma tramite una realistica analisi degli eventi, dei rapporti di forza, delle prospettive che hanno improntato e improntano le prassi espressive ed espositive, ossia, insieme alla componente commerciale, il fulcro del meccanismo ‘arte’. Negli ultimi decenni l’impulso “cerebrale” da una parte, e dall’altra il progressivo allargamento a comportamenti e oggetti prima considerati estranei, fondando un discorso soprattutto metalinguistico – che cos’è l’opera d’arte? -, hanno permesso di raggiungere risultati insperati, in ogni significato possibile del termine. Infatti, la stessa sperimentazione continua e comprensiva a seguito di una fase prolifica, è chiaro che ogni spinta per via inevitabile diminuisce l’effetto, inceppandosi sul nome di un altro Dio – la novità a tutti i costi, anche a costo di consumarsi – è divenuta paradossale, convenzionale, stancante ripetizione di codici verificati e persino metabolizzati. Insomma, il desiderio di originalità, rispondente in seconda battuta ai capricci di un’economia speculativa e di una cultura sensazionalistica, nel bruciare ha prosciugato le fonti, lasciandoci la constatazione che oggi il numero maggiore delle ricerche artistiche, in quanto conformista per derivazione, arriva in ritardo sul proprio tempo.

Tomás Saraceno – On Space Time Foam – 2012 – Hangar Bicocca
Tomás Saraceno – On Space Time Foam – 2012 – Hangar Bicocca 

In tale scenario di per sé asfittico, la formula espositiva tipizzata – si legga quattro pareti, qualche opera/intervento site specific o no, il viatico degli addetti ai lavori – sta a ulteriore inquadramento di quanto già sarebbe troppo inquadrato. Né purtroppo rappresentano reali varianti i cosiddetti contesti alternativi – spazi ibridi, recuperi industriali, situazioni non profit ecc. – se a mutare è soltanto il contesto scenografico e non il modo di realizzare. Attenzione: ciò non significa che non si possano raggiungere risultati interessanti. Significa che, se si raggiungono, è grazie al talento e all’originalità dell’artista nonostante il contenitore-mostra.
Dunque, che cosa faremo quando il caro estinto apparirà come tale e sarà riconosciuto agli occhi di tutti? Nell’emergenza della scomparsa, si avrà l’opportunità di avanzare ipotesi finalmente più attinenti all’attuale sensibilità estetica, sia nel verso della creazione che in quello della ricezione. Intanto, così da non perdere altro tempo e non aggiungere elucubrazioni al già ipertrofico intellettualismo, proponiamo: per una necessaria rigenerazione, gli artisti prendano per un po’ in mano, da soli e sicuri, le redini del gioco. Siano loro, in questa fase incerta, ad autogestirsi, senza indulgere al logoro processo delle raccomandazioni, degli accreditamenti, delle concessioni, e soprattutto senza subordinarsi alla curatela e alla critica. Poiché in generale la prima è troppo influente e la seconda senza spessore: la scomposizione dei ruoli farà bene a tutti, e il favore, anche quello che si traduce in celebrità e denaro, se deve, arriverà comunque.

Live in your head: When Attitudes Become Form - Kunsthalle Bern, 1969
Live in your head: When Attitudes Become Form – Kunsthalle Bern, 1969

Del resto, qui la posta non coincide con la riuscita di qualcuno, semmai con una ritrovata prossimità al pubblico, necessaria non per pietismo o per correttezza istituzionale, ma perché solo in rapporto agli altri l’espressione nasce di continuo. Questa è una strada percorribile per esiti di maggiore spontaneità e individualità: sì signori, quando la mostra finisce, l’arte può tornare a essere sé.

 

Matteo Innocenti
(Artribune) 

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